Parto da un bel post pubblicato da Andrea Laudadio su Linkedin qualche giorno fa. Puoi leggerlo qui.

Il post inizia così:

“La gamification, l’applicazione di elementi di gioco (punti, classifiche, ricompense) in contesti aziendali o formativi, viene spesso vista come uno strumento universale per motivare e coinvolgere le persone. Ma funziona davvero allo stesso modo per tutti? La letteratura scientifica recente risponde chiaramente: no.”

Ineccepibile: la gamification non è neutra.

La gamification viene spesso presentata come una soluzione “per tutte le stagioni”, il “Santo Graal” dell’engagement, ma in realtà non è affatto universale né ugualmente efficace per tutti. Le stesse dinamiche di gioco che motivano alcuni utenti possono lasciare indifferenti altri. Un sistema ludificato andrebbe progettato in modo user centered, adattandosi alle caratteristiche, ai bisogni e alle preferenze dei destinatari. In altre parole, una meccanica di gioco può avere effetti diversi a seconda di chi ne fruisce, del contesto e di come viene percepita. E questo vale anche quando la gamification è applicata alla formazione aziendale.

Differenze di genere e motivazione

Il post di Andrea Laudadio mette in luce un aspetto importante: la gamification non funziona allo stesso modo per tutti, in particolare se guardiamo alle differenze di genere. Alcuni studi, ad esempio, mostrano che le donne trovano motivante collezionare punti e badge, persino più degli uomini. Ma in altri contesti, come ad esempio quello universitario, è successo il contrario: le sfide e i punteggi hanno migliorato i risultati degli uomini, mentre le studentesse hanno fatto peggio rispetto a chi non aveva un percorso gamificato.

Cosa ci dice tutto questo? Che una gamification progettata senza attenzione rischia di favorire qualcuno e penalizzare qualcun altro. E se lo scopo è formare, coinvolgere, aiutare le persone a crescere e acquisire nuove competenze… vale davvero la pena correre questo rischio? Senza dubbio no. Perché in questi casi, la gamification smette di essere uno strumento utile e diventa una barriera.

Partendo da questa riflessione sulle differenze di genere, mi sono posto la domanda: quali altri fattori possono trasformare la gamification in un ostacolo anziché in un’opportunità di apprendimento? Ho messo insieme un po’ di dati e di esperienza e ho scritto quanto segue.

Generazioni e aspettative digitali

Non tutte le generazioni vivono la tecnologia e il gioco allo stesso modo. Chi è nato tra gli anni ’80 e i primi 2000 (Millennial e Gen Z) è cresciuto con i videogiochi e poi con internet, quindi si aspetta che anche la formazione sia più interattiva e coinvolgente.

In uno studio fatto in azienda (qui trovi l’articolo che ne parla in Open Access), i lavoratori più giovani hanno trovato molto più interessante un corso con elementi gamificati rispetto ai colleghi over 40.

Lo studio dice anche che:

  • gli avatar piacciono a tutti, giovani e meno giovani;
  • i badge (le ricompense simboliche) motivano soprattutto i giovani;
  • le classifiche spingono a partecipare quasi solo la Gen Z.

Morale? Se progetti un percorso gamificato, è importante offrire stimoli diversi, per coinvolgere sia chi ama il gioco, sia chi preferisce una formazione più classica.

Culture e contesti

Generazioni e gamification

Anche il contesto culturale fa la differenza. Un’attività che entusiasma chi vive in una parte del mondo può non dire nulla a chi vive in un’altra. In uno studio, ad esempio, si è visto che gli utenti statunitensi e quelli brasiliani reagiscono in modo diverso agli stessi elementi di gioco: alcuni amano la sfida individuale, altri preferiscono la collaborazione o il senso di gruppo (la fonte dello studio è questa).

Ecco perché chi progetta dovrebbe sempre tenere conto del contesto culturale di riferimento, scegliendo elementi che siano familiari, motivanti e attenti alle diverse culture.

Ma non è finita qui…

Oltre la siepe: i bias nascosti nella gamification

Ci sono anche altri fattori, forse meno visibili, che possono rendere un’esperienza gamificata poco efficace o persino scoraggiante. Nulla di nuovo, ma vale la pena ricordarli.

  1. Bias cognitivi: non tutti apprendiamo allo stesso modo

Meccaniche come timer, punteggi in tempo reale o classifiche pubbliche possono sembrare stimolanti… ma non lo sono per tutti.
Chi ha uno stile di apprendimento più lento, o condizioni come ADHD, autismo o ansia, può sentirsi sotto pressione, o addirittura bloccato.
Non diamo per scontato che esista un solo modo di ragionare. Lasciamo spazio per scegliere il ritmo, rivedere i contenuti, fare pause. C’è poi anche il tema più complesso dell’accessibilità che richiederebbe un post dedicato (ne ho parlato qui, ma servirebbe un focus per la gamification). Se volete farvi un’idea su gioco e accessibilità, date un’occhiata al sito della Fondazione ONCE (in spagnolo).

  1. Bias digitali: non tutti hanno la stessa confidenza con la tecnologia

Molti sistemi gamificati danno per scontato che le persone sappiano usare con facilità app, dashboard, avatar, badge. Ma non tutti hanno la stessa esperienza con strumenti digitali o dinamiche da videogioco.  Se i destinatari sono un gruppo eterogeneo, non vale davvero la pena complicare l’esperienza. Spesso si parte con il gioco, senza presentare cosa i partecipanti dovranno fare. Un videogiocatore capisce in breve tempo come muoversi, ma chi non ha dimestichezza con quel mondo fa fatica aa orientarsi senza dinamiche semplificate, senza una guida passo dopo passo.

  1. Bias di personalità: non tutti amano competere

C’è chi adora le sfide e chi preferisce osservare. Lo so, perché in famiglia io sono l’unico “giocatore”. Chi si accende con un punteggio, e chi trova fastidioso dover essere “il primo”. Un’esperienza troppo spinta sul lato competitivo può mettere a disagio chi è più introverso o riflessivo. Un approccio gamificato può non interessare a chi non trova alcun interesse fare qualcosa “per gioco”.

Meglio allora usare più stili di fruizione della formazione, se possibile, e la possibilità di scegliere: punteggio o storia? Classifica o feedback privato? Collaborazione o sfida individuale? Personalizzare è un atto di cura.

  1. Bias di progettazione: gamificare per sé, non per gli altri

Bias della gamificationQuesto punto riguarda soprattutto chi progetta e sviluppa la formazione, soprattutto online. Bisogna porre la massima attenzione a non progettiamo pensando a cosa piacerebbe a chi pensa a realizzare un’attività di apprendimento. Se chi progetta è appassionato di gaming, tenderà a creare percorsi adatti a chi condivide gli stessi gusti. Ma non tutti sono gamer.

Un progettista appassionato di videogiochi complessi potrebbe involontariamente creare dinamiche troppo elaborate o competitive per un pubblico che magari cerca un’esperienza più semplice e orientata all’apprendimento pratico. La chiave sta nell’empatia con il destinatoario della formazione e nella comprensione delle sue motivazioni e preferenze, che possono variare significativamente in base a età, esperienza e obiettivi di apprendimento. Una gamification efficace non deve essere centrata sull’ideatore.

Un esempio di gamification che ha funzionato

Un esempio pratico viene da un’azienda del settore media che ha gamificato un corso interno di informatica per i dipendenti​ (qui il link all’articolo). Il progetto ha integrato, oltre ai classici punti e badge, anche una narrativa avvincente e sfide diversificate ispirate a vari profili di giocatori​. In questo modo si sono attivati molteplici fattori motivazionali: dalla competizione alla collaborazione, dalla curiosità di una storia alla soddisfazione di personalizzare l’esperienza. Il risultato è una gamification più inclusiva, adatta a dipendenti di età, genere e culture diverse.

Conclusione

Tutto parte da una buona e consapevole pregettazione.

Conoscere i destinatari e le trappole in cui non cadere deve guidarci nella costruzione di una gamification inclusiva. Serve quindi un dialogo aperto tra chi richiede la formazione, chi lavora al progetto formativo e chi lo sviluppa.

L’obiettivo ultimo è sempre formare. Per farlo attraverso la gamification serve dosare competizione e cooperazione, ricompense e narrazione, feedback e momenti di riflessione, magari offrendo opzioni di adattabilità e personalizzazione.

P.S. Mi sono fatto suggerire un paio di fonti e l’esempio di gamification dall’Intelligenza Artificiale 🙂

 

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Gli altri post sull’e-learning li trovi qui.

 

 

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